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PUBBLICAZIONI:

LUCIA BUBILDA NANNI – “ORAMA”

di Barbara Pavan

ORAMA è un suffisso che rimanda tanto alla veduta quanto alla proiezione e suggerisce che per vedere con consapevolezza sia necessario esplorare anche il verso delle cose, l’ombra. È questo ‘doppio’ a rivelare la mutevolezza, l’impermanenza e la vera natura di ogni manifestazione visibile, la pluralità del reale che una osservazione superficiale, un solo punto di vista, non può restituire.(…)

Articolo integrale pubblicato su GRAPHIE n.106 Anno XXVI 2024

FABIA DELISE

testo critico catalogo di Barbara Pavan

La ricerca di Fabia Delise esplora le possibilità di sintetizzare una pratica antica con un linguaggio contemporaneo. Per affrontare questa sfida ha affinato nel tempo diverse tecniche – dal ricamo all’art quilt – fino a padroneggiarle magistralmente e con impeccabile precisione.

Questo investimento formativo è stato necessario per consentirle quella sperimentazione che, nel perimetro di una tradizione che intende non solo preservare ma anche trasmettere al futuro, trasforma la lentezza e la ripetitivà anacronistica dei gesti in un esercizio meditativo talmente arcaico da sovrastare il tempo rendendolo più che mai moderno e rivoluzionario in una contemporaneità dai ritmi di una velocità sconcertante. Per comprendere a fondo il lavoro di Delise bisogna partire da qui, dalla dicotomia di fenomeni apparentemente opposti e dalla sua capacità di coniugarli in un linguaggio nuovo, intimista, atemporale.

La volontà di superare i parametri rigidi di una tecnica tradizionale e antica era già chiara nei primi lavori in cui, pur attenendosi al rigore dell’elemento base esagonale, la cifra formale era estranea ai canoni decorativi del patchwork (disegni geometrici, ecc.) e frutto di una sperimentazione della composizione astratta che aveva nella luce il punto cardine della sua ricerca.

Nella sua pratica artistica ogni aspetto è fortemente interconnesso: dall’ispirazione ai gesti, ai materiali alla tecnica fino al significato – oserei dire – “spirituale” dell’opera, tutto è indissolubilmente intrecciato in un’alchimia che quanto più lentamente e tenacemente trova il suo compimento tanto più profonda e potente è la portata emotiva che riesce ad esprimere.

Le opere di Fabia Delise sono così evocative proprio perché libere dal citazionismo artigianale, dalla riproduzione esplicita della forma da cui nasce l’ispirazione che le ha generate. Al colore, attraverso una sapiente composizione cromatica, l’artista affida l’onere di veicolare un ampio spettro di emozioni che seppur attinte dalla memoria e dall’esperienza personale, filtrate da sensibilità e talento artistico, vengono restituite in una formula universale dove il singolo osservatore può riconoscerne le proprie. 

L’abilità innovativa è confermata nei lavori più recenti che diventando tridimensionali ribadiscono la possibilità di varcare i confini stretti dell’applicazione pedissequa della regola attraverso l’immaginazione e la sperimentazione. Ancora una volta, tecnica e contenuto si fondono e confondono nella pratica dell’artista, diventando qui metafora della possibilità di oltrepassare i limiti spaziali e temporali che definiscono la nostra esistenza, una condizione che l’artista esperisce in prima persona dopo l’allontanamento dai luoghi dell’infanzia di cui conserva una memoria viva e consolatoria in cui rifugiarsi.

È questa capacità di rispecchiare il nostos che appartiene a ciascuno di noi il peso specifico dei suoi lavori: non importa se ad ispirarla è il contrasto del rosso delle foglie di sommacco con la fredda pietra del Carso, l’aria tersa dopo una giornata di bora, le sfumature di grigi nelle giornate piovose o la terra rossa dell’Istria, essi vibrano sempre all’unisono con l’universale anelito ad un ideale luogo a cui tornare che custodisce intatta la sostanza di cui è fatta l’assenza. 

La tridimensionalità degli elementi che compongono le sue opere rende ogni volta differente e imprevedibile la sequenza di luci e ombre, di toni e sfumature, sfuggendo al controllo capillare dell’artista che da questa resa all’imprevedibilità non governabile di alcuni fenomeni trae – e restituisce nell’opera stessa – il senso permeante ed ancestrale di un placido scorrere dei tempi della natura, una dimensione accogliente, disarmante e liberatoria, scevra dalle ansie e dalle paure indissolubilmente legate agli accadimenti umani. Per un misterioso effetto sinestetico davanti ai suoi lavori rimaniamo in ascolto del racconto sussurrato di pomeriggi d’infanzia, respiriamo l’odore delle foglie cadute sulla strada bagnata, consegniamo disarmati ogni nostra malinconia al potere terapeutico della memoria e in un catartico riecheggiare di ricordi, scopriamo che l’arte – questa arte – non è solo un antidoto all’oblio, ma una terra di cura, condivisione e libertà cui apparteniamo.

THOMAS DE FALCO: ELOGIO DELLA METAMORFOSI

di Barbara Pavan

Enfant terrible della tessitura se è vero, com’è vero, che già all’epoca in cui frequentava la Scuola Superiore di Arazzo del Castello Sforzesco a Milano le sue opere forzavano la bidimensionalità proiettandosi verso la terza dimensione e trasformandosi, a tutti gli effetti, in sculture, Thomas De Falco è, a mio parere, tra gli artisti che utilizzano i linguaggi tessili e in particolare le tecniche dell’arazzeria, uno dei più interessanti sulla scena internazionale. Classe 1982, italo-francese, oggi è rappresentato dalla Galleria Richard Soulton di Londra ma vive tra Parigi e il resto del mondo, in un nomadismo che, come tutto in lui è innato, naturale, fluido. Quest’ultima caratteristica – la fluidità – è forse il fil rouge, il tratto comune a tutta la sua esistenza: permea la sua ricerca, la sua pratica artistica, la sua stessa identità.

La vita è intesa come un flusso che ci attraversa in una perenne trasformazione.

Proprio come scrive nel suo saggio “Metamorfosi”, Emanuele Coccia: “Tutto cambia forma. (…) Il mondo in quanto realtà planetaria è un corpo alla deriva e, viceversa, il fatto di essere alla deriva è il primo attributo di tutti i corpi, terrestri e celesti, di questo universo.” E, ancora: “ogni corpo è soggetto a metamorfosi”. Non a caso il filosofo è anche l’autore del testo critico della mostra di De Falco “Technology” (2021) nata durante una residenza a Cascina I.D.E.A. di Agrate Conturbia. 

Questa vita intesa come un’unità cosmica che stringe la materia della Terra in un’intimità carnale, indifferentemente dalla specie cui apparteniamo di cui scrive Coccia e che presuppone un cambiamento sempre in fieri è materia stessa con cui sono intessute le opere di De Falco. La relazione con la natura è fondamentale per il suo lavoro informato tanto dalla ricerca che ne esplora l’essenza, i fenomeni e i rapporti tra i suoi componenti quanto dagli studi letterari che spaziano dalla filosofia alla poesia. È il filo a cucire, intrecciare, annodare insieme i diversi universi che nutrono la sua pratica artistica: “all’inizio – dice – fissavo in maniera ossessiva foglie, radici e insetti nei miei quaderni con grandi cuciture a vista. Questi cahier sono parte fondamentale del mio lavoro, una memoria dove disegnavo e cucivo elementi naturali raccolti in viaggio, bozze da cui nasceva lo studio di un arazzo, una scultura tessile o una perfomance.” 

Quello con il medium tessile è stato per De Falco un innamoramento – spiega – una scelta che non è in effetti tale e le cui motivazioni si perdono in percorsi tortuosi tra archetipi universali e memorie personali. Un amore, forse l’unico davvero possibile nella sua accezione più assoluta, – suggerisce – che lega indissolubilmente l’artista alla sua opera, talmente viscerale da poter identificare la seconda come prolungamento del primo. E d’altra parte l’estensione della vita (come dell’arte) oltre i limiti del corpo e dell’identità è uno dei temi cardine della sua ricerca. 

L’annullamento o il superamento dei confini, qualunque essi siano, ci riporta al nomadismo di cui dicevo all’inizio, un termine che meglio di tutti delinea l’insopprimibile urgenza di spostarsi, quel moto continuo che ha nell’interpretazione simbiotica tra vivere e viaggiare e nel patrimonio di esperienze che nascono dall’incontro con l’altro e con l’altrove la propria origine. La sua è una migrazione perenne affrontata con la levità di chi non ha zavorre e non ha radici se non nelle proprie opere. È in esse infatti che per De Falco tutto prende forma e trova il suo spazio: esse sono il nostos a cui tornare, l’unico porto sicuro in cui ogni elemento si compenetra, nutrendo l’opera da cui è nutrito, in uno sviluppo che nell’abbraccio del wrapping o della tessitura interconnette natura e cultura, tecnologia e spiritualità, personale e universale, vita e morte, senza soluzione di continuità.

Appunto attraverso la tecnica del wrapping – una fitta combinazione di nodi che consente variazioni dello spessore e della forma a seconda della distribuzione della lana e che è la cifra di molti suoi lavori – il processo creativo, totalmente manuale, procede come nella costruzione di un bozzolo che, in fondo, come scrive ancora Coccia, è la prova che la vita costruisce per intero il proprio cosmo, (…) la vita trasforma costantemente lo spazio nel quale si dispiega e, per questa ragione, la vita vive sempre sé stessa.

“Nelle mie installazioni tessili e nelle performance – aggiunge l’artista – ho sempre inserito elementi naturali: una su tutte, nella performance “Intricacy” che inaugurava la mia personale “Nature”, curata da Laura Cherubini, alla Triennale Design Museum di Milano nel 2017/2018, dove i perfomer erano avvolti con tessuti cuciti con foglie e rami d’albero; una vera metamorfosi in fieri tra corpo e natura (evocativa di quella di Apollo e Dafne) che riecheggiava gli arazzi della mostra tessuti con rami d’alberi. Già nel 2016, però, nella performance “Roots” al Museo MAXXI di Roma, un intricato sistema di radici realizzate con un wrapping di seta e cotone connetteva i performer in una simbiosi tra sculture viventi allusive ad un bosco di aceri rossi giapponesi. Recentemente ho iniziato ad integrare nelle opere tessili materiali industriali come il cemento e i cavi elettrici.” Una scelta che amplia la sua esplorazione sui cambiamenti e la contaminazione della tecnologia sugli esseri umani e sulla natura e apre alla riflessione su quanto essa stia diventando, ad esempio, prolungamento del corpo, parte integrante dei processi di sviluppo dell’essere umano e di interazione di quest’ultimo con le altre specie e l’ambiente. 

Il legame che si instaura nelle sue opere con il mondo naturale rende viva la materia tessile e, infine, trova compimento nell’espressione attraverso il corpo. In un continuum tra installazioni tessili che evocano arterie e radici e che sembrano affondare tanto nel performer quanto nella terra, e tra arazzi, sculture e performance in movimento, quello cui dà forma De Falco è il pensiero ovidiano di un soffio vitale che attraversa e occupa qualsiasi corpo, qualsiasi luogo, in un perenne mutamento in cui nulla muore ma nulla, per contro, conserva per sempre la sua forma. “Nei miei arazzi – aggiunge – la tessitura consolida il legame indissolubile tra i viventi e celebra la parabola vita, morte, vita. Ispirandomi alla poetica di Paul Valery, nel ‘Dialogo dell’albero’ ad esempio, direi che per me è come tessere corpi per dar voce e vita alla materia tessile.”

La centralità di un principio vitale comune è espressa nel suo lavoro anche attraverso la figura femminile che non è semplicemente la raffigurazione di una Madre Natura o di una matrice generatrice, ma piuttosto l’incarnazione di una forza incontenibile di trasformazione, la tenacia della vita che si serve di tutto per rigenerare sé stessa. Che sia resa esplicita attraverso una performer oppure evocata dai tratti abbozzati di un corpo femminile o appena rintracciabile in un’allusione ad esso tra le forme di una scultura o tra i fili di un arazzo, De Falco non cede mai al romanticismo sterile della bellezza estetica preferendo piuttosto la seducente sublimazione della potenza che ogni evento traumatico e violento come la nascita e la rinascita contiene in sé. Dunque il corpo femminile non è mai immagine, rappresentazione statica di se stesso offerta passivamente allo sguardo ma, piuttosto, un’entità dinamica, colta nell’atto creativo o trasformativo, restituito in un apparente processo in divenire di cui ci è dato assistere ad un solo frammento, un hic et nunc già in dissoluzione nell’istante in cui lo osserviamo.

È invece il colore l’ambito più recente in cui muove la ricerca di De Falco. “Durante la pandemia, le restrizioni mi hanno costretto a una stanzialità cui non ero abituato. Ho iniziato allora a lavorare con il colore, studiandone la dimensione concettuale e i suoi significati, collegandomi alle ricerche di Michel Pastoreau in questo ambito e sviluppando i legami tra colore e corpo.” Con progetti espositivi programmati già in diverse città d’Europa tra 2022/23, sono fiduciosa che potremo presto godere come pubblico dei frutti di questa sua nuova sperimentazione. Pur indagando territori per lui sinora inesplorati, De Falco resta coerente con la sua cifra di fluidità e cambiamento e d’altronde, lo stesso Pastoreau ebbe a dire che non è possibile comprendere i colori del tempo presente se non in relazione a quelli delle epoche passate. 

Perché tutto è interconnesso, tutto è cambiamento, tutto è metamorfosi.

DIRE, FARE, CUCIRE: FLORENCIA MARTINEZ

di Barbara Pavan

Per comprendere a fondo il lavoro di Florencia Martinez occorre partire dalla sua biografia. Nata e cresciuta in Argentina da una famiglia per metà di origine italiana e per l’altra metà spagnola e irlandese, dal 1990 si è trasferita a Milano dove vive e lavora ancora oggi. Nel ramo materno assorbe l’inquietudine generata dal rapporto conflittuale dei nonni con la terra che ha dato loro i natali e che hanno abbandonato alla ricerca di migliori condizioni di vita nel paese sudamericano dove, in effetti, in quegli anni molti trovano benessere e prosperità. Nei confronti dell’Italia lontana, un po’ matrigna avara e ingrata, in famiglia si nutrono sentimenti contrastanti: è l’incantevole altrove ma anche le radici imbarazzanti, è il luogo di cui “non ne voglio più sapere” ma anche quello della lingua sacra delle preghiere. Una tensione che l’artista, non senza ironia, ci restituisce nell’immagine delle feste natalizie della sua infanzia celebrate a tavola con cotechino e lenticchie nelle bollenti estati di Buenos Aires. Del ramo paterno, poi, Martinez racconta di una nonna irlandese morta come Dylan Thomas, ‘dopo il diciottesimo bicchiere di whisky’, e di un nonno Martinez che pare sia stato un avventuriero spagnolo durato il tempo di un drink. 

È l’assenza – ovvero ciò che manca – la presenza ingombrante che trasforma la ricchezza di una famiglia multiculturale nell’incertezza sulla propria identità, quella sorta – citando l’artista stessa – di schizofrenia del migrante, di dannazione di un eterno esilio che non ti consente mai di essere completamente dove sei, di sentirti davvero a casa.

Questo senso di estraniamento che l’accompagna dall’infanzia è all’origine della sua ricerca artistica e della scelta del medium tessile. In una prima fase, per quasi un ventennio, il tessuto è la base del suo lavoro. Su di esso applica fotografie estratte da archivi personali o degli anni ’50 che stampa e manipola. Le opere di questo periodo sono una stratificazione di memorie estranee le une alle altre: quelle del tessuto e quelle delle immagini, non necessariamente – anzi quasi mai – complementari, testimoni di storie raramente connesse tra di loro e forse persino contradditorie ma costrette alla coesistenza dall’intervento dell’artista. Il risultato è una narrazione ibrida, sospesa in una dimensione decontestualizzata e atemporale, autobiografica.

All’inizio, dunque, la sua sperimentazione è alimentata da quella bambina che mangia lenticchie a 38°C, ma nel tempo essa acquisisce la cifra di un’artista che attraverso l’arte affronta gli enigmi – personali e universali – dell’esistenza. Il tessuto da pelle diventa corpo, le sue opere si fanno sempre più materiche, occupano lo spazio tridimensionale, prendono forma. Una fisicità indispensabile per dare solidità, peso, volume a temi che escono ormai dall’ambito intimo per incontrare l’altro: il potere salvifico dell’arte non riguarda più soltanto l’artista e la sua storia, ma istanze urgenti della contemporaneità che coinvolgono tutti, perché l’artista è parte di una comunità, di questa umanità, di questo pianeta e, quindi, non può e non deve sottrarsi alle sfide del suo tempo. Ecco allora che radici e identità sono due concetti che si diluiscono nella condivisione dell’esperienza umana attraverso l’arte. Le sue opere diventano sempre più assertive, costruite con tessuti cuciti disperatamente – dice – come potrebbe fare un medico su un campo di battaglia: le sue cuciture hanno voce – danno voce – sono e devono essere forti e ben visibili poiché sono sostegno, argine, legame, ossatura.

E poi c’è la parola, una forza magica che assume nella sua forma più alta, la poesia, un potere sciamanico, curativo. Florencia non sa ricamare se non per scrivere parole a cui vuole conferire corpo, sostanza fisica che si opponga all’immaterialità e alla fugacità della comunicazione virtuale. Opera d’arte nell’opera d’arte, la parola è segno, è gesto, è simbolo capace di veicolare significati ulteriori. Come nell’installazione del 2014 al Hubei Museum of Art in Cina, dove 23 parole scelte tra 230 parole belle o ‘nutrienti’ indicate da amici e conoscenti sono state ricamate su stendardi di tessuto installati a formare un labirinto tessile in cui il fruitore può immergersi in un’atmosfera tutta italiana.

Anche la partecipazione del pubblico all’opera, infatti, è tra gli obiettivi del lavoro di Martinez in quelle che definisce azioni, termine che preferisce a performance, in quanto richiedono un coinvolgimento attivo e non solo emotivo del fruitore. Ad esempio, nel suo progetto PROTECTION (2016, Milano, Graz, Salerno, Barcellona e Miami) chiede ai visitatori di scrivere su un foglio il nome di una persona che vorrebbero proteggere; il foglio viene poi avvolto nel tessuto, legato con un filo di cotone ed installato in una sorta di spirale cosmica che finisce con il comporre un universo parallelo di nomi (persone) amati, protetti nei fagottini di tessuto. Nel 2019, in QUEL CHE NON SI DICE QUEL CHE NON SI ASCOLTA, durante una residenza alla Fondazione Rocco Guglielmo, il coinvolgimento del pubblico diviene ancora più profondo: ai partecipanti è richiesto di scriversi una lettera dicendosi tutto ciò che vorrebbero o dovrebbero modificare della propria vita o di sé stessi. Al centro della riflessione ci sono iper-connessione, comunicazione attraverso i canali social, relazioni sempre più virtuali e superficiali che lasciano molto di inespresso: sentimenti, emozioni, paure che finiscono con il diventare angoscia, ansia, depressione. Partendo da questa premessa, l’artista sollecita il ruolo relazionale dell’arte e rimette le parole, il loro significato autentico e i messaggi che veicolano al centro dell’azione e dell’attenzione. Ma è anche la sequenza dei gesti – scrivere, piegare la carta, manipolare il tessuto, annodare il sacchetto – che assume per lei un significato non secondario: il recupero di un contatto fisico e tattile con i materiali, una manualità che ci apparteneva nel gioco e nell’infanzia e che in parte abbiamo dimenticato e perduto.

Se, quindi, i contorni incerti e ambivalenti del passato hanno definito il perimetro da cui attingere per allacciarlo ad un presente di pacificazione emotiva e di affermazione della propria identità, nella parola e nella poesia l’artista ha trovato le risorse per dare forma all’immateriale, gettando un ponte tra sé e l’altro. Ma è cucendo e ricamando il tessuto come fosse la propria pelle, il proprio corpo, la propria anima, che ha consentito alla sua ricerca di superare i limiti della dimensione individuale. Un dialogo stretto, il suo con la materia alla quale conferisce una consistenza solida che si oppone a quella che Eleonora Fiorani nel suo “Leggere i materiali” indica come nuova materialità leggera che “occupa poco spazio, eppure produce una completa riorganizzazione dell’ambiente artificiale”, in un mondo che tende all’immaterialità, dove i materiali stessi si fanno sempre più inconsistenti, e che pure si riempie fino all’asfissia di prodotti industriali che colonizzano la quotidianità di cose senza profondità né fisica né culturale.

Preservare questo significato intrinseco delle cose, questo spessore, questa loro memoria è parte integrante della ricerca di Martinez intorno ai materiali. Dalla necessità di salvare i tessuti dismessi dalla discarica – e il pianeta da un inquinamento devastante – sono nate le palline, moduli che assemblati compongono sculture, corpi, paesaggi, mappe, installazioni. Nel 2015, la serie CARRITOS, presentata alla Galleria Francesco Zanuso di Milano e patrocinata da EXPO2015, nasce proprio dalla riflessione sul consumo delle risorse ambientali e sull’intervento che l’uomo può operare, con intelligenza e ingegno, sul destino proprio e del pianeta. I carritos sono carriole che nel 2001 a seguito della crisi economica che ha investito il paese, cominciano a comparire nelle vie degli uffici del centro di Buenos Aires. A spingerle sono uomini, talvolta famiglie, che dalla periferia vengono a raccogliere carta e cartone da rivendere per procurarsi da mangiare: per i cartoneros uno scarto diventa una risorsa.

Ingiustizia, discriminazione, disparità sociale, impoverimento culturale: il tessuto è per Florencia Martinez linguaggio universale e poliedrico. A partire dal suo primo progetto interamente ed esclusivamente cucito, era il 2017 – H, HOME HUNGRY HONEY – dove la riflessione procede dalla lettera muta H che diventa indispensabile per parlare di esigenze fondamentali dell’uomo: la fame (hungry) – di essere e di avere – il bisogno di essere amati (honey) di sentirsi sicuri, di avere un posto del mondo (home). Una mostra che ruota intorno ad una Pietà in feltro grigio che sostiene un corpo agonizzante di pizzi e perline: è il Terzo Mondo che sostiene il Primo, chi non ha niente che sorregge il peso di chi veste il niente di strati su strati di superfluo.

Fino ad arrivare all’ultimo progetto degli ABBRACCI, presentato recentemente alla Gilda Contemporary Art di Milano, che in tempi di distanziamento ed isolamento assume nuovi ed inaspettati significati. L’abbraccio è idealmente la sintesi perfetta di tutta la poetica di Florencia Martinez: è protezione, cura, fraternità, incoraggiamento, contatto con l’altro, superamento delle distanze e delle differenze, riappacificazione, sostegno, affetto, amore.

È la protezione dal vuoto che talvolta ci sembra incombere da più parti, la manifestazione concreta del meglio della natura umana.

PUBBLICATO SU ArteMorbida Textile Arts Magazine – Aprile 2021 – n. 03

ANATOMIA DELLE RELAZIONI UMANE. LA RICERCA ARTISTICA DI GIULIA NELLI

di Barbara Pavan

La ricerca di Giulia Nelli si snoda attraverso la complicata rete delle relazioni umane all’interno di quella che Zygmunt Bauman definiva società liquida.  Fluidità di rapporti affettivi ed emotivi generata da una cultura del consumo e del soddisfacimento immediato di bisogni e desideri, in cui ogni cosa, ivi incluse le relazioni, deve essere pronta, consumata, sostituita. In una società sempre forzatamente in movimento, incapace di attribuire valore al tempo dell’attesa, coltivare relazioni è indubbiamente complicato, tanto che è forse più adeguato, in quest’era ipertecnologica, parlare di connessioni ovvero relazioni virtuali che, a differenza di quelle di un tempo, sono facili da instaurare e altrettanto da troncare. 

Uno scenario di vita liquido, appunto, quello moderno che ha in sé un’ambivalenza – si instaurano rapporti per sfuggire al senso di vulnerabilità e solitudine ma volendo preservare altresì intatta la propria libertà – dalla quale risultano legami fragili la cui estrema precarietà genera un senso di insicurezza. La Nelli riassume questa tensione tra attrazione e repulsione, tra speranza e paura nel binomio legàmi/légami con cui affronta due ampie tematiche: la complessità dei legami che si instaurano tra le persone – il loro perdurare anche soltanto nella memoria, la carica emotiva che sviluppano e l’influenza che hanno sulla vita interiore dell’individuo – e la rete di relazioni che compone una comunità.

Questa ricerca, avviata già nel 2018, con opere come “Isole” – che sostenevano l’importanza per l’individuo di uscire dalla comfort zone del proprio sistema di emozioni, speranze, sogni e progetti per relazionarsi con l’altro – ha trovato nuove letture durante la fase di lockdown, con lavori che attribuiscono un indubbio valore al tempo rarefatto, elemento prezioso per riscoprire un’idea di comunità che negli ultimi anni sembrava cancellata dai processi di globalizzazione, di urbanizzazione e di sviluppo delle reti sociali virtuali.  L’isolamento imposto dall’emergenza Covid19 ha infatti evidenziato la percezione di solitudine come un’emergenza autentica nella società contemporanea, correlata anche alla dimensione sempre più virtuale dell’esistenza e alla instabilità dei rapporti interpersonali che ne deriva. Nelle sue opere recenti, come “Movimenti dell’anima” (2020), la riflessione si focalizza sul senso profondo della vita laddove, decaduto l’effimero, emerge l’urgenza che già Erich Fromm indicava nel suo “L’arte di amare”: “(…) gli uomini di tutte le età e culture sono chiamati a risolvere l’unica e sempiterna questione: come superare lo stato di separatezza, come raggiungere l’unione, come trascendere la propria vita individuale.” 

Per l’artista, la ridefinizione rapida e continua di tutti i parametri della società contemporanea deve necessariamente sfociare nella ricerca di nuove formule con cui gli individui possano relazionarsi: se, da un lato si interroga sulla proliferazione di legami inconsistenti, evanescenti e superficiali a scapito di quelli duraturi che presuppongo impegni a lungo termine, dall’altro si pone in osservazione delle trasformazioni in fieri per una metamorfosi della natura relazionale in grado di adeguarsi alle istanze della società complessa in cui viviamo. A seguito degli inevitabili cambiamenti intervenuti a causa della pandemia, ad esempio, con “Paradiso perduto” si domanda quale sia il valore di questo eden che riteniamo di aver abbandonato se già da tempo l’individuo sembrava aver rinunciato alla possibilità di sviluppare legami solidi intorno a progetti esistenziali condivisi. L’evento traumatico ha dunque evidenziato come non esistano vie brevi per la felicità e come la libertà vera non stia nell’ampiezza delle possibilità di scelta ma nel saper sviluppare e condividere progetti e idee per le quali lottare. In questi passaggi del divenire, la ricerca della Nelli legittima la speranza, se non la promessa, di un rinnovamento delle dinamiche della relazione.

Lo fa attraverso un lavoro di destrutturazione della rete complessa di rapporti umani, stracciando e sfilacciando il collant – suo materiale d’elezione – fino a ridurlo ad un singolo filo – l’individuo – per poi ricomporlo, rielaborando un tessuto nuovo, alla ricerca di un altrettanto nuovo equilibrio relazione/legame. Con opere come “Legami e solitudini” rappresenta il difficile tentativo di uscire dall’isolamento soggettivo per condividere le proprie emozioni, in uno sforzo verso una crescita spirituale ed emotiva improntata a valori che diano senso e nuove prospettive alla percezione di se stessi, della realtà e dell’interazione con gli altri.

Una visione, dunque, fondamentalmente ottimista, rintracciabile in tutte le sue opere e che riassume nella convinzione che “i legami non necessariamente limitino e costringano bensì, tracciando i confini, offrano ordine, misura e senso, segnino un percorso, rappreseniano un appiglio”, arrivando negli ultimi lavori, come ‘’La porta del cuore’’, a sperimentare la rappresentazione tridimensionale, che conferisce maggiore volume a una trama di legami non più percepita come una trappola bensì come una rete di protezione, che esalta la bellezza della ricerca condotta in profondità e che consente all’individuo di costruire la propria identità su fondamenta stabili per resistere alle avversità della vita. 

Sosteneva Heidegger che le cose si rivelano alla nostra coscienza solo attraverso la frustrazione che provocano. È indubbio che gli sconvolgimenti repentini del ritmo delle nostre vite nel corso dell’ultimo anno, con il confinamento entro spazi ristretti ed in un ambito relazionale fisico sempre più esiguo a favore di un aumento esponenziale dell’attività virtuale, abbiano enormemente amplificato i limiti già evidenti di un sistema relazionale caratterizzato dalla difficoltà di condivisione profonda di emozioni, pensieri, affetti. Giulia Nelli evidenzia i vuoti lasciati dai legami incerti fin qui sperimentati, quei buchi che diventano nell’opera nuove figure costruttive, finestre verso nuove soluzioni, metafore di un varco aperto su orizzonti inesplorati. L’opera d’arte diventa testimonianza di una ricerca che confida nella capacità dell’uomo di edificare altri ponti di collegamento tra se stesso e l’umanità, che ripone una rinnovata fiducia nell’attitudine a inventare trame e orditi inediti per tessere intrecci migliori. Una ricerca senza soluzione di continuità che trova la sua forma espressiva nel cerchio che, dentro l’equilibrio e l’armonia del suo perimetro, custodisce la memoria delle innumerevoli battaglie che vi si sono combattute. È indispensabile, dunque, superare i modelli già sconfitti dall’esperienza continuando a lottare per rintracciarne di più adatti ad un tempo nuovo, così come ogni generazione è stata chiamata a fare, seppur più lentamente, nel corso della storia. 

Se è vero che i cambiamenti intervenuti a seguito dell’emergenza sanitaria hanno messo in discussione la qualità e la quantità dei rapporti interpersonali, essi hanno rimarcato anche la percezione della nostra vulnerabilità di fronte alla forza imprevedibile della natura, costringendoci ad una accelerazione nella revisione del rapporto tra l’uomo e il contesto in cui vive. Con l’opera “Legami ancestrali” la Nelli aveva già sostenuto l’importanza di riscoprire le radici profonde che ci legano a un territorio nei suoi diversi aspetti naturalistici, culturali ed economici, auspicando l’abbandono di una visione limitata ed egoistica della realtà. Ma la rivalutazione della necessità dell’uomo di sentirsi parte di un più ampio sistema armonico è ancora più evidente in HUMUS, una serie recente di lavori, realizzata nell’ambito di un progetto che indaga nuove modalità di convivenza, non solo tra gli uomini ma tra essi e l’ambiente e gli altri esseri viventi. 

In HUMUS l’artista considera il suolo come uno spazio tridimensionale in cui comunità vegetali e animali sono integrate in una rete estremamente complessa dove è prioritario il mantenimento di legami simbiotici. La scelta del suolo deriva dal fascino esercitato da un linguaggio che parla di cooperazione e offre un nuovo punto di vista su come affrontare la sfida per la sopravvivenza, prendendosi cura dell’habitat e della capacità riproduttiva della terra. In particolare, l’opera “Humus” trae spunto dalla comune radice linguistica di suolo/terra (“humus”) e di uomo (“homo”) e auspica la creazione di trame di legami simbiotici con gli altri e con la natura nel superamento di quella visione dell’uomo-padre/padrone del pianeta e di tutte le creature che lo abitano. A queste tematiche, del resto, la Nelli si era avvicinata già con “Madre Terra” (2019), un’opera in cui opponeva ad una terra soffocata dalle sostanze tossiche, in cui il seme non può germogliare, uno spazio nuovo, fecondo e protettivo come un ventre materno; un concetto espresso attraverso l’uso dei collant in poliammide ed elastan – un materiale ancora non oggetto di raccolta differenziata domestica – strappati, tirati e ridotti al loro elemento essenziale, il filo, successivamente re-intrecciato secondo un processo di ricostruzione e di trasformazione della materia dalla sensibilità tutta femminile.

Come il romanzo utopico ottocentesco, che denunciava il degrado della civiltà al tempo della prima rivoluzione industriale attraverso il viaggio nel sottosuolo, questo nuovo progetto è un viaggio che diventa pretesto per riflettere sulle conseguenze negative del gigantismo in ambito commerciale, industriale, agricolo e urbano e per innescare il desiderio di nuove forme di convivenza che sappiano integrare ogni elemento della cultura in una relazione simbiotica tra le comunità degli uomini e la terra.

Le opere di Giulia Nelli sono state selezionate in contest internazionali ed esposte in gallerie private ed istituzioni pubbliche in Italia, Francia, Portogallo, Russia.

LA NATURA BUGIARDA DI ELHAM M. AGHILI

di Barbara Pavan

Lavora alacremente al nuovo progetto, Elham M. Aghili, con pazienza certosina e perizia tecnica coltivata e maturata dopo tanta sperimentazione e continui ritocchi migliorativi. Ha da poco terminato la grande installazione in mostra – mentre scrivo – a CONTEXTILE, prestigiosa Biennale di Arte Tessile Contemporanea di Guimarães, in Portogallo, che l’ha selezionata attraverso un contest a cui partecipano artisti da tutto il mondo. La serie di opere che sta lentamente prendendo forma invece sarà in mostra a Bologna il prossimo giugno, salvo slittamenti dovuti ad eventuali nuove emergenze. Il progetto trae ispirazione dalle piante del Giardino dei Semplici, il primo orto botanico di Bologna, voluto da Ulisse Aldrovandi (1522-1609) – filosofo, naturalista, botanico, entomologo – e richiama altresì le teorie di Johann Wolfgang Goethe espresse nel suo ‘La metamorfosi delle piante’. Qui nell’affrontare il tema del divenire della forma in natura, lo scrittore tedesco ipotizza che le differenti specie botaniche si siano evolute da una pianta madre, un processo perennemente in fieri in cui le nuove varietà mantengono una connessione con le piante generatrici. Partendo da questa idea, la Aghili sta sviluppando un giardino tessile in cui ciascuna pianta appare ‘generata’ da quella adiacente, un ibrido nella forma, seppur identificabile dai molti accurati dettagli che contraddistinguono tutte le sue opere.  È dunque una natura in continua evoluzione quella realizzata da questa giovane artista italo-iraniana, laureata all’Accademia di Belle Arti di Bologna, capace di trasformare il filo di lana, elemento fluido, morbido, esile, in un materiale solido e corposo di cui si serve per creare installazioni tridimensionali, talvolta immersive, talaltra invasive (come la natura vera, del resto).

È una natura di cui ha studiato a lungo la morfologia e le molteplici connessioni con l’ampio spettro del sapere (e del ‘sentire’) umano, dalla botanica alle neuroscienze al paesaggismo, e che ricostruisce in maniera dettagliata, calcolata, artificiosamente complessa, per restituire una dimensione di autenticità e spontaneità. Sembra una natura viva, la sua, così perfettamente delineata, quasi colta nell’impercettibile istante in cui si espande, evolve, respira. “Artificiale e naturale sono comunemente due concetti opposti – scrive l’artista – tuttavia ad una attenta analisi sul significato dei due termini si coglie che l’uno racchiude l’altro: naturale (dal latino nasci-nascere) significa derivato dalla forza che genera; artificiale (dal latino artificio) è tutto ciò che viene prodotto con mezzi e strumenti ad imitazione della natura.” E in questo dialogo tra naturale e artificiale, tra vero e falso, si muove la sua ricerca artistica.

Come in WILD ONTOLOGY, complessa installazione in cui la decontestualizzazione degli elementi naturali allude all’esperienza del selvatico e dell’addomesticato, che irrompendo come una potente forza vitale, costringe l’architettura che la ospita ad una ridefinizione dello spazio e ci conduce ad una riflessione su cosa oggi percepiamo come ‘natura’ e quale ruolo le attribuiamo.

A dispetto dell’accuratezza estetica, l’intento artistico della Aghili non è però certamente quello di ritrarre Madre Natura. Sebbene la sua ricerca non prescinda dalla ‘forma’, lo studio e l’osservazione le consentono di creare opere che interpretano e rielaborano meccanismi e fenomeni naturali per scoprire e comprendere il mondo: “La natura è stata ed è la prima fonte di ispirazione per l’uomo. Osservare le forme naturali e i processi che le generano ci fa entrare in contatto con il meraviglioso fluire della vita.”, dice. 

Pratica che risulta più che mai attuale, se non addirittura futuristica, se solo si pensa a scienze come la biomimetica che dall’osservazione, imitazione, rielaborazione e trasferimento di processi della natura in ambito artificiale trae indicazioni per la ricerca di soluzioni ai più svariati problemi che affliggono la contemporaneità. Altrettanto fa l’artista nella sfera che le compete e con gli strumenti di cui dispone.

Il filo applicato alle forme degli elementi naturali, metafora di quello che si dipana dalla matassa dei pensieri, nell’intervento artistico codifica simboli e significati, veicolando il messaggio dell’artista affrancato dal caos creativo della riflessione astratta. La relazione tra i diversi moduli che compongono le installazioni e tra quest’ultime e lo spazio che le accoglie determina il senso dell’opera d’arte.

Se i suoi macro girasoli/sentinelle sospesi a un filo invisibile e schierati come solerti soldati incombevano sull’osservatore costringendolo a domandarsi quale fosse la responsabilità e il ruolo dell’elemento umano nel rapporto con l’ambiente naturale, INVASIONEINTEGRAZIONE, l’opera esposta al Museo del Tessile di Chieri in occasione di TRAMANDA International Fiber Art Exhibition, era invece fortemente autobiografica, sintesi dell’esperienza personale dell’artista, divisa e moltiplicata dalla doppia cultura di cui è figlia. In questo caso, il filo si faceva radice, capace di infiltrarsi in ogni minimo anfratto e di nutrire e generare una natura rigogliosa composta di moduli sempre uguali a se stessi ma che creano di volta in volta nuove e inaspettate scenografie. Metafora della forza della vita, mutevole e resiliente, che vince e supera ogni ostacolo, attraverso l’intrusione di quella prorompente flora tessile la Aghili sollevava molteplici interrogativi sulla definizione dei contorni dell’identità e dell’appartenenza ai luoghi ed alle comunità.

Al dilemma sul confine tra vero e falso s’ispira l’installazione THI(SEA)S DI(SEA)SE dove affronta il tema della malattia e della vecchiaia. Una ricca barriera corallina realizzata con filati il cui colore reagisce alla luce ultravioletta, racconta, in una dimensione poetica della fragilità, l’ambiguità tra essenza ed apparenza, tra verità ed illusione.

In fin dei conti, quindi, è una natura bugiarda – che natura in effetti non è – quella che appare nelle opere della Aghili, erede di una cultura persiana che ha regalato al mondo versi poetici, lirici, mistici di incommensurabile bellezza ad essa ispirati. Complice un’infanzia spesa tra i giardini tessili dei tappeti del padre, la natura rappresenta per questa artista molto più di una musa ispiratrice: essa diventa linguaggio, codice, medium, dna dei suoi lavori. 

Scrive Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace, esule iraniana per motivi politici, nel suo libro/testimonianza ‘Finché non saremo liberi’: “Come si faceva ad abbandonare gli alberi che si piantavano ogni anno nel giardino ancor prima che producessero melograni e noci e mele profumate?”. 

E ancora, solo per citare due esempi contemporanei, Kader Abdolah nel suo ‘La casa della moschea’ allorché tutta la famiglia si riunisce, la sera, per copiare i disegni delle piume degli uccelli, dice “Non si rendevano conto di essere degli artisti. Pensavano solo di portare avanti la tradizione della casa, una tradizione che riguardava i tappeti e il bazar. Volevano produrre i tappeti più belli del paese, anzi, di tutto il Medio Oriente.”

È facile capire quindi, senza scomodare la millenaria tradizione persiana – le illustrazioni del Šāh-nāma di Ferdowsi, i saloni del palazzo Čehel Sotun di Isfahan o il padiglione nel giardino dell’Haft tan (il luogo di sepoltura di sette mistici) decorato a piastrelle floreali nello stile Zand – quanto il dialogo natura/giardino – arte sia ben presente e profondamente radicato nella sensibilità dell’artista. 

Natura e fili. Con i secondi, abilmente manipolati, Elham M Aghili mima la prima, dando voce, forma, colore e…volume alle domande che l’uomo pone a se stesso prima che a qualsivoglia divinità di fronte alle sfide del presente, di ogni presente – di oggi, di ieri e di domani. 

D’altra parte, “l’arte, – diceva Paul Klee – non riproduce il visibile, rende le cose visibili”.

Pubblicato su ArteMorbida Textile Arts Magazine 1/2020, ottobre 2020

SUL FILO DEL NOSTRO TEMPO, DA CASERMARCHEOLOGICA LA FIBER ART RACCONTA L’OGGI

Intervista a Barbara Pavan di Matteo Galbiati

Appunti su questo tempo – la grande mostra allestita a Sansepolcro (AR) negli spazi suggestivi di CasermArcheologica – ci offre l’opportunità per poter approfondire le tematiche, i contenuti e le modalità espressive di chi ha scelto di esprimersi attraverso il linguaggio della fiber art e, così, abbiamo deciso di raccogliere la testimonianza diretta di Barbara Pavan, una delle massime voci storico-critiche in questo ambito. Pavan, che è anche la curatrice della mostra, da anni si dedica, infatti, esclusivamente allo studio, all’analisi e alla promozione di quegli artisti che, a livello internazionale, hanno scelto di esprimersi attraverso l’arte tessile.

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OPEN DIALOGUES: INTERVISTA CON BARBARA PAVAN

Intervista di Margaret Sgarra per TheFemaleCurators

Nata a Monza e cresciuta a Biella tra telai e filati, Barbara Pavan è una curatrice e critica d’arte specializzata in fiber art. La passione per il filo l’ha portata a ideare e curare mostre, progetti espositivi, cataloghi e blog tematici, diventando così un punto di riferimento delle forme espressive tessili.

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7 DOMANDE CHE TUTTI FANNO SULL’ARTE TESSILE, CON BARBARA PAVAN

Intervista di Guido Nosari per NonSoloWork

L’arte tessile, o “Fiber art”, è una corrente dell’arte contemporanea che sta diventando sempre più conosciuta e apprezzata da musei e collezionisti.
Per il grande pubblico, invece resta tuttora spesso sconosciuta e poco approcciabile. 
Oggi abbiamo deciso di fare 7 domande introduttive a una delle più importanti voci italiane per l’arte tessile, Barbara Pavan.
Già precedentemente abbiamo affrontato l’arte tessile con l’intervento “Nuvole Solitarie” avvenuto a Bergamo, oggi invece solletichiamo la curiosità dei nostri lettori con le domande che più spesso si sentono fare dal grande pubblico.

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ARTE TESSILE IN ITALIA

Intervento di Barbara Pavan a LE ARTI POSSIBILI

Nell’incontro pubblico “La possibilità del limite” che si è tenuto sabato 21 ottobre 2023 nei giorni dell’esposizione dell’installazione collettiva GIROTONDI | CROMIE CONDIVISE, Barbara Pavan – curatrice e critica d’arte specializzata in Fiber Art – ci ha proposto le sue riflessioni sul rapporto tra Fiber Art e limite.

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